Chi era Luce d’Eramo, la scrittrice “aliena” che non chinò la testa davanti ai nazisti

Il ricordo della scrittrice
Ribelle sin da piccola, cresciuta in una famiglia vicina al Duce, andò giovane nei lager come volontaria, per finirvi internata. Esperienze che riversò in racconti e romanzi memorabili

Luce d’Eramo volle definirsi “aliena”, in un prezioso libretto del 1999 (Io sono un’aliena) ora ristampato da Feltrinelli (prefazione di Margaret Mazzantini). E cioè naturalmente eretica, inclassificabile, ribelle, “sempre nel posto sbagliato” (come recita l’autobiografia di un altro grande spirito libero, nomade e outsider, Edward Said). Lo era perfino al manifesto, dove la conobbi e da quell’incontro nacque una promessa di amicizia che avrei voluto coltivare meglio.
Radicale ma estranea al gergo dei salotti, socievole e al tempo stesso intrattabile, refrattaria a qualsiasi mondanità intellettuale, mite e impetuosa, sovranamente indifferente a premi e festival letterari (entrata tra i finalisti dello Strega, restò scandalosamente esclusa dalla cinquina, ma cosa poteva importargliene? era assai più ambiziosa di tutti quelli che smaniano di vincere lo Strega…). Un po’ come il suo adorato Silone (cui dedicò una monografia memorabile). A proposito dell’autore di Fontamara: mi ha sempre colpito che tutto il pensoso rovello dell’ex Pci, passato attraverso innumerevoli mutazioni, poteva recuperare i sincretismi intellettuali più improbabili, e accogliere perfino un nazista mai pentito come Carl Schmitt, ma Silone – ruvido cantore del Sud dei cafoni e socialista cristiano – no, troppo poco vertiginoso!
Era nata nel mese di giugno di cento anni fa a Reims. La sua esistenza “scabra, drammatica, appassionante come il secolo che ha attraversato” (così definita dal figlio Marco), e i molti libri che ha scritto (soprattutto romanzi, e qualche saggio), ci insegnano più cose di tanti libri di filosofia (lei che, laureatasi in filosofia voleva essere filosofa ma sentiva una vocazione per le storie e le immagini, non per i concetti). Figlia di un imprenditore emigrato in Francia e poi sottosegretario a Salò, e della responsabile del Fascio a Parigi, si trasferisce in Italia ad Alatri e poi a Roma completando il liceo, va a lavorare nei Lager prima come volontaria fascista poi come deportata comunista (questa tensione costante a vivere le proprie idee, ad oltranza, potrebbe evocare la biografia di Simone Weil). Fuggita da Dachau, si ritrova con dei volontari a scavare nelle macerie di Magonza – entro uno scenario che ricorda Germania anno zero di Rossellini, quando una bomba al fosforo le danneggia la colonna vertebrale paralizzando le gambe (una vicenda che racconterà in Deviazione, uscito nel 1979). Appena dopo la guerra, madre e invalida (costretta su una sedia a rotelle), consegue due lauree, si immerge voracemente nella lettura e nello studio. Senza rinunciare però alla sua indole “festaiola” (dice sempre il figlio Marco) e vitalistica, frequenta scrittori importanti (tra cui Moravia) e teologi (lei ha una fede “pascaliana”, tremante e paradossale), comincia a pubblicare i primi racconti (uno su Nuovi argomenti), si appassiona al ‘68, per una brutta caduta della carrozzina nel 1988 le sue precarie condizioni fisiche si aggravano, morirà dopo una malattia nel 2001.
Proprio leggendo Io sono un’aliena, suo testamento spirituale, scopriamo che Lucetta – così chiamata dagli amici – , scrittrice devota a ideali di misura razionale (socratica), trasparenza della scrittura ed equilibrio del pensiero, si rivela una figura poco meno che “sovversiva”. Elencando le molte ragioni dello scrivere – capire il mondo, raccontare storie (le stesse che amava sentire da bambina), sentirsi libera, vivere un solitario stare con gli altri, etc. – ne indica quella decisiva: scomparire! E cioè calarsi nei propri personaggi, svuotarsi, uscire dalla trista prigione di un io invadente e dispotico, dissolversi nel fiato della narrazione… Che si abbia il coraggio di scriverlo sulle porte d’ingresso delle scuole di scrittura creativa! Ci troviamo a una distanza siderale dall’idea e pratica corrente di letteratura come consumo, esibizione di sé, disperato bisogno di apparire, ansia di visibilità, fervore autopromozionale. Scomparire non è in lei un esercizio ascetico, anzi costituisce “una grande soddisfazione”, significa accettare la morte e non temerla più. Una sottile tecnica zen passata attraverso un marxismo evangelico e siloniano, fortunatamente depurato di ogni magniloquente filosofia della Storia.
Meravigliosamente aliena, sradicata, sempre un po’ ai margini, vittima di incomprensioni critiche e fraintendimenti, come Anna Maria Ortese, Cristina Campo, Goliarda Sapienza, Amelia Rosselli, e come loro continuamente aperta al mistero – gioioso o luttuoso, mirabile o spaventoso – dell’esistenza. Una sera a casa sua, dopo cena, io ero già in piedi per uscire (con Paola, mia moglie, che le stava molto simpatica), chinato verso di lei per salutarla, ma Lucetta non voleva mollarmi: mi tempestava di domande con la sua voce apprensiva, affettuosa e inquieta: in quel momento sentivo che stavo diventando per lei un personaggio letterario, familiare ed enigmatico, che poi avrebbe forse raccontato in qualche libro (il che è anche molto gratificante!). Lucetta in quel momento voleva sparire dentro di me! La consapevolezza del tragico della condizione umana non è mai disgiunta dall’amore per la vita: come in altre scrittrici del ‘900 il nichilismo non è mai l’ultima parola. In Io sono un’aliena scrive che nel vedere una mattina in terrazza dei fili d’erba che la sera prima non c’erano lei scoprì che “non solo le cose che c’erano potevano svanire; ma che le cose che prima non c’erano a un tratto comparivano”. Ricordiamoci della fondamentale obiezione ontologica di Hannah Arendt a Heidegger, filosofo abissale e menagramo: sì, chiamiamo pure gli esseri umani “mortali”, come pure facevano i greci, pero gli esseri umani oltre a morire nascono, dunque potremmo chiamarli legittimamente i “natali”.
La molla dei suoi romanzi è sempre un forte sentimento di empatia – e di ustionante immedesimazione (nei neonazisti con Si prega di non disturbare, nei brigatisti con Nucleo zero, negli anziani con L’ultima luna, negli extraterrestri con Partiranno, in una donna degli anni 50 in cerca di indipendenza con Un’estate difficile) – che non ha nulla di moralistico ma nasce dall’urgenza “delfica” di conoscere ed esplorare se stessa, i confini sempre sfuggenti della propria anima. Ogni ritratto, come sapeva Carlo Levi, è un autoritratto. Solidarietà, compassione e fraternità nel pensiero di Lucetta hanno più a che fare con la “social catena” leopardiana (su Leopardi scrisse la tesi di laurea) – l’appello a una alleanza di tutta l’umanità non tanto contro la “natura” ma contro la mortalità, per trasformarla e neutralizzarla – , che con la ferrigna pretesa di “scientificità” della teoria marxista. Per rispettare la diversità degli altri occorre ritrovarla – con ostinazione e pazienza – in se stessi. Il motto di Lucetta, serissimo ma anche un po’ giocoso, avrebbe potuto essere: alieni di tutto il mondo unitevi!
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